Majjhima Nikāya 79

Cūlasakuludāyi Sutta

Sakuladāyi (2)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime dimorava presso Rājagaham, nel parco di bambù, nel sito degli scoiattoli. Quella volta Sakuludāyī il pellegrino si tratteneva nel sito dei pavoni, nel giardino dei pellegrini, insieme ad una grande comitiva di seguaci. Il Sublime quel giorno, pronto di prima mattina, presi mantello e scodella, si diresse verso Rājagaham per l’elemosina. Però, accortosi che era ancora troppo presto, decise di andare a visitare quei pellegrini. Nel frattempo Sakuludāyī il pellegrino era seduto in mezzo alla grande comitiva dei pellegrini che, strepitando con gran chiasso, discutevano sopra ogni sorta di cose futili, come su re, briganti, principi, soldati, guerre, battaglie, cibi, bevande, vesti, letti, fiori, odori, relazioni, veicoli, vie, villaggi, borghi, città, contrade, femmine, vini, piazze, mercati, antenati, mutamenti, storie di terra, storie di mare, varie esistenze, e così via.

Avvedendosi dell’avvicinarsi del Sublime, Sakuludāyī ammonì la propria comitiva: “Siate meno chiassosi, amici; ecco che viene l’asceta Gotamo! Questo onorevole non ama il chiasso, loda la quiete: può darsi che vedendo un’assemblea tranquilla, egli pensi di venire qua.”

Quindi ora quei pellegrini tacquero, e allora il Sublime si avvicinò a Sakuludāyī che così lo accolse: “Venga dunque, Signore, il Sublime; salute a lui! Lungamente Egli ha fatto sperare questa occasione di una visita qui. Si segga, Signore: questo sedile è pronto.”

Si sedette il Sublime sul sedile offerto; Sakuludāyī sedette accanto a lui su un sedile più basso e il Sublime chiese: “Per quale conversazione eravate qui ora in consesso, e perché vi siete interrotti?”

“Lasciamo stare, Signore, quella conversazione; Egli la sentirà più tardi. Quando io non intervengo in questa comitiva, allora essa è raccolta a conversare su ogni sorta di cose volgari; quando però io intervengo, allora essi si rivolgono tutti a me [dicendo]: ‘Quello che l’asceta Udāyī ci insegnerà, noi l’ascolteremo’. Ora però che il Sublime è intervenuto, io e gli altri ci rivolgiamo a lui: ‘Quello che il Sublime ci insegnerà, noi l’ascolteremo’.”

“Allora, Udāyī, tant’è che si cominci da voi.”

“Giorni addietro, Signore, colui che tutto sa, tutto vede e professa illimitata chiarezza di sapere, ‘che io vada o stia, dorma o vegli, ho sempre presente l’intera chiarezza del sapere’, interrogato da me sul passato, divagava da una cosa all’altra, deviava dalla questione e palesava ira, odio e fastidio. Allora, Signore, ho pensato proprio con gioia al Sublime: ‘Oh il Sublime, oh il Benvenuto! Lui è certo pratico di queste cose!’”

“Chi è dunque costui che tutto sa, tutto vede e professa illimitata chiarezza di sapere, che interrogato sul passato divagava e palesava ira, odio e fastidio?”

“Nāthaputto lo Svincolato, Signore.”

“Chi ora, Udāyī, si ricordasse di molte diverse anteriori forme d’esistenza, come di più vite, ognuna con i propri caratteri distintivi, sia che egli interrogasse me, o che io interrogassi lui sul passato, egli si rallegrerebbe della mia risposta come io mi rallegrerei della sua. E chi con l’occhio celeste, rischiarato, sovrumano, vedesse gli esseri sparire e riapparire, volgari e nobili, belli e brutti, felici ed infelici, riconoscesse come gli esseri sempre secondo le azioni riappaiono, sia che egli interrogasse me o che lo interrogassi io sul futuro, egli si rallegrerebbe della mia risposta come io mi rallegrerei della sua. Nondimeno, Udāyī, lasciamo stare passato e futuro. Ti mostrerò la dottrina: Se quello è, questo ne viene; con l’origine di quello, ha origine questo; se quello non è, questo non ne viene; con la fine di quello, finisce questo.”

“Io, Signore, non sono in grado di ricordarmi singolarmente di tutto ciò che m’è accaduto nella mia attuale esistenza; come potrei ricordarmi di molte diverse anteriori forme d’esistenza, come di più vite, ognuna con i propri caratteri distintivi, come se ne ricorda il Sublime? Io ora non vedo neanche il fuoco fatuo, come potrei con l’occhio celeste vedere e riconoscere ciò che vede e riconosce il Sublime? Ciò che il Sublime mi dice della sua dottrina mi rende anche più perplesso. Oh se potessi anch’io soddisfare il Sublime rispondendogli col mio proprio insegnamento!”

“Che è dunque il tuo proprio insegnamento?”

“Esso suona così: ‘Questo è il supremo splendore, questo è il supremo splendore!”

“Qual è questo supremo splendore?”

“Quello splendore di cui non v’è altro splendore più alto e più bello.”

“E qual è esso?”

“Quello splendore di cui non v’è altro splendore più alto e più bello.”

“A lungo ora tu, Udāyī, puoi continuare a dire così, ma non spieghi quello splendore. Come se un uomo dicesse: ‘Io bramo quella che è la più bella di questo paese, quella desidero’; e gli si chiedesse: ‘Questa più bella del paese, la conosci; è della casta dei guerrieri, dei sacerdoti, dei borghesi o dei servi? Se così interrogato, rispondesse: ‘No’. E gli si chiedesse: ‘Ehi, uomo, questa tua bella che nome ha, che cognome? Di che statura è? È nera, bruna o chiara di pelle; in che villaggio, borgo o città abita?’ Se così interrogato, rispondesse: ‘No’. E gli si chiedesse: ‘Ehi, uomo, quella che tu non sai né vedi, tu la desideri? E lui rispondesse: ‘Sì’. Tu che ne pensi, Udāyī: Stando così le cose, non si sarebbe avuto da quell’uomo una risposta inconcludente?”

“Certamente, Signore!”

“Proprio così tu dici: ‘Quello splendore di cui non v’è altro splendore più alto e più bello’; ma non spieghi quello splendore.”

“Così come una gemma bella, pura, ben lavorata ad otto facce, posta sopra un panno bianco brilla, scintilla e risplende, così risplende l’anima, purificata dopo la morte.

“Tu che pensi, Udāyī: quale splendore è più vivo e più bello nella profonda oscurità della notte: quello della gemma o quello della lucciola?”

“Quello della lucciola.”

“Tu che pensi, Udāyī: quale splendore è più vivo e più bello nella profonda oscurità della notte: quello della lucciola o quello d’una lampada ad olio?”

“Quello della lampada ad olio.”

“Tu che pensi, Udāyī: quale splendore è più vivo e più bello nella profonda oscurità della notte: quello della lampada ad olio o quello di una grande fiaccola?”

“Quello di una grande fiaccola”.

“Tu che pensi, Udāyī: quale splendore è più vivo e più bello: quello di una grande fiaccola nella profonda oscurità della notte, o quello della stella mattutina all’alba, disperse e svanite le nubi?”

“Quello della stella mattutina.”

“Tu che pensi, Udāyī: quale splendore è più vivo e più bello: quello della stella mattutina, o quello della luna piena a mezzanotte?”

“Quello della luna piena a mezzanotte.”

“Tu che pensi, Udāyī: splende più la luna piena a mezzanotte nella quindicesima del plenilunio o il sole a mezzodì nell’ultimo mese delle piogge, in autunno?”

“Il sole a mezzodì.”

“Orbene, Udāyī, vi sono molti dèi gli splendori dei quali superano quelli di questa luna e di questo sole: ed io li conosco. Però non dico: ‘Altro splendore più alto e più bello di questo non v’è’. Invece tu, di quello splendore che è più basso e più debole di quello di una lucciola, dici: ‘Esso è il supremo splendore’: e non spieghi quello splendore.”

“Stroncata è la discussione dal Sublime, dal Benvenuto!”

“Perché dici così?”

“Il nostro proprio insegnamento suona così: ‘Questo è il supremo splendore, questo è il supremo splendore!’ Ora noi, interrogati, esaminati, investigati dal Sublime sul nostro proprio insegnamento, siamo risultati vuoti, vacui e manchevoli.”

“Dimmi dunque, Udāyī,: V’è un mondo di perfetto bene? V’è una sicura via per giungere al mondo del perfetto bene?”

“Il nostro proprio insegnamento, Signore, dice proprio così.”

“Qual è la sicura via per giungere al mondo del perfetto bene?”

“Ecco, Signore: uno, rinunziando ad uccidere, a prendere il non dato, alla lussuria, alla menzogna, si astiene da tutte queste cose; oppure si è assunto un’altra penitenza. Questa è la sicura via.”

“Che ti pare, Udāyī, allorché rinunciando a tutte queste cose ed astenendosi da loro, ci si sente perfettamente bene, o bene e male?”

“Bene e male, Signore.”

“Che ti pare, Udāyī: camminando dunque per una via che porta ad un bene e male, si raggiunge forse il mondo del perfetto bene?”

“Stroncata è la discussione dal Sublime, dal Benvenuto!”

“Perché dici così?”

“Il nostro proprio insegnamento, Signore, dice proprio così: ‘V’è un mondo di perfetto bene. V’è una sicura via per giungere al mondo del perfetto bene.’ Ora noi, interrogati, esaminati, investigati dal Sublime sul nostro proprio insegnamento, siamo risultati vuoti, vacui e manchevoli. Vi è però, Signore, un mondo di perfetto bene? V’è una sicura via per giungere al mondo del perfetto bene?”

“Vi è sì, Udāyī, un tale mondo ed una tale via.”

“Qual è essa, Signore?”

“Ecco, Udāyī, un monaco, ben lungi da brame, da cose non salutari, in senziente, pensante, nata da pace beata serenità raggiunge il grado della prima contemplazione. Dopo compimento del sentire e pensare, egli raggiunge l’interna calma, l’unità dell’animo, la non senziente, non pensante, nata dal raccoglimento beata serenità, la seconda contemplazione. In serena pace dimora egli equanime, savio, chiaro cosciente, prova nel corpo quella felicità di cui i santi dicono: ‘L’equanime savio vive felice’: così egli raggiunge la terza contemplazione. Questa è la sicura via per giungere al mondo del perfetto bene.”

“Questa non è più la sicura via per giungere al mondo del perfetto bene. Con ciò si è già raggiunto il mondo del perfetto bene!”

“Non s’è raggiunto invero quel mondo; ciò è solo la sicura via per giungervi.”

A queste parole la comitiva di Sakuludāyī il pellegrino proruppe in esclamazioni, in alti e grandi clamori: “Così non s’è perduto da noi l’insegnamento: noi non sappiamo niente di più alto!” Allora Sakuludāyī, dopo averli fatti acquietare, disse: “Come dunque, Signore, si raggiunge il mondo del perfetto bene?”

“Ecco, Udāyī, un monaco, col distacco dal piacere e dal dolore, con la scomparsa della letizia e della tristezza anteriore, raggiunge la non triste, non lieta, equanime, savia, perfetta purezza, la quarta contemplazione. E con gli dèi, sorti nel mondo del perfetto bene, egli sta, parla e conversa. Così dunque, Udāyī, con ciò si raggiunge il mondo del perfetto bene.”

“Sicuramente, Signore, per raggiungere questo mondo i monaci menano vita ascetica presso il Sublime?”

“No davvero, Udāyī. Vi sono ancora altre cose più alte e più belle per raggiungere le quali i monaci menano vita ascetica presso di me.”

“Quali?”

“Ecco, Udāyī, restando un monaco con tale animo, saldo, puro, terso, schietto, schiarito da scorie, malleabile, duttile, compatto, incorruttibile, egli dirige l’animo alla memore cognizione di anteriori forme di esistenza. Egli si ricorda di molte diverse anteriori forme di esistenza, come di una vita, di due vie e così via, ognuna con i propri caratteri distintivi. Questa è una cosa più alta e bella.

Con tale animo, saldo e incorruttibile, egli dirige l’animo alla cognizione dell’apparire e sparire degli esseri. Con l’occhio celeste, rischiarato, sovrumano, egli vede gli esseri sparire e riapparire, volgari e nobili, benfatti o malfatti, felici ed infelici, egli riconosce come gli esseri riappaiono sempre secondo le azioni. Questa è un’altra cosa più alta e più bella.

Con tale animo, saldo e incorruttibile, egli dirige l’animo alla cognizione dell’esaurimento della mania. Egli comprende conforme a realtà: ‘Questo è il dolore’, ‘Questa è l’origine del dolore’, ‘Questa è la fine del dolore’, ‘Questa è la via che conduce alla fine del dolore’, ‘Questa è la mania’, ‘Questa è l’origine della mania’, ‘Questa è la fine della mania’, ‘Questa è la via che conduce alla fine della mania’. Così riconoscendo, così vedendo, il suo animo si redime dalla mania del desiderio, dalla mania dell’esistenza, dalla mania dell’ignoranza. ‘Nel redento è la redenzione’: questa cognizione sorge. ‘Esausta è la vita, vissuta la santità, operata l’opera, non esiste più questo mondo’: comprende egli allora. Anche questa è un’altra delle cose più alte e più belle per raggiungere le quali i monaci menano vita ascetica presso di me.”

Dopo queste parole Sakuludāyī disse al Sublime: “Benissimo, Gotamo, benissimo! Così come se si raddrizzasse ciò che era rovesciato, o si scoprisse ciò che è nascosto, o si portasse luce nell’oscurità: ‘chi ha occhi vedrà le cose’; così appunto è stata dal signore Gotamo in vari modi esposta la dottrina. E così io prendo per rifugio il Sublime, la Dottrina e l’Ordine dei mendicanti. Voglia il Sublime concedermi l’investitura, concedermi l’ordinazione!”

Così avendo parlato Sakuludāyī, i suoi discepoli dissero a lui così: “Non voglia il signore Udāyī seguire la vita religiosa presso l’asceta Gotamo: non voglia lui che è stato un maestro, vivere la vita da allievo! Come se una ciotola per bere divenisse una secchia per attingere acqua, così accadrebbe al signore Udāyī. È come se una ciotola per bere divenisse una secchia per attingere acqua; così accadrebbe al signore Udāyī. Non voglia lui che è stato un maestro, vivere la vita da allievo!”

E così i discepoli di Sakuludāyī il pellegrino lo distolsero dalla vita ascetica presso il Sublime.